IL PESO DEI PROPRI PASSI

 

27 MAGGIO

 

E’ tutta la mattina che cammino senza direzione per le vie di Santiago. Una bella giornata di sole, l’ultima che trascorro in questa città, piacevole quanto quella in cui ci ho messo piede per la prima volta. Sembra che il sole esca soltanto per darmi il benvenuta e per gli addii.

Santiago mi piace, con la sua cattedrale super-famosa e mille altri angoli sconosciuti che le contendono il trono di “miglior posto della città”. I vecchi bar, frequentati solo da gente locale, che si nascondono nelle vie che scorrono parallele a quelle più turistiche. Sono là, a fianco ai ristoranti che servono la solita paella precotta, le solite specialità di pesce surgelato, il solito caffè carissimo. Sono lì attaccati eppure il turista non li nota, né ci mette mai piede.

Li distingui dall’illuminazione, sempre al neon, dal rumore della folla che sempre li riempie, dagli scontrini, le salviette e gli stuzzicadenti abbandonati che se la raccontano ai margini del bancone. Qua la gente ti saluta quando entri, il barista ti ascolta e ti serve senza mai proferir parola. Si mangiano cose diverse, tutte buone, si beve un bicchiere di rosso discreto e una birra alla spina decente. Si spende il giusto. Si saluta e si esce, di nuovo in centro, incrociando pellegrini con zaino, bastone e vestiti consumati e gente ben vestita che mai si guarda attorno.

Santiago mi piace perchè è sempre viva e attiva e se ne frega del bello o del cattivo tempo. E mi piace perchè è sempre la stessa, perchè sono tornata in un caffè di cui conservavo un bel ricordo e l’ho trovato ancora lì, esattamente dove lo ricordavo, con il suo arredamento alternativo a base di teste di manichini e antichità e la musica degli Smiths che rempie il silenzio tra un boccone di croissant e l’altro.

Santiago e i suoi affittacamere, che cercano di affittarti una stanza con lo stesso fare con cui uno spacciatore cercherebbe di venderti una dose.

Santiago e i suoi musicisti di strada, improvvisati o meno. Pellegrini che lungo il cammino hanno esaurito le finanze o disoccupati del posto che arrotondano il sussidio.

Santiago è unica, perchè possiede qualcosa che nessun’altra città può vantare: il privilegio di essere la meta più ambita e desiderata di ogni pellegrino.

Pensate ad una città qualsiasi: parigi, berlino, sydney, bombay, rio de janeiro, san francisco, venezia. E ora pensate alla gente che ci arriva. Contenti e soddisfatti e piacevolmente sorpresi. Ma mai quanto una persona che per arrivarci ha viaggiato giorni e mesi a piedi, a cavallo o in bicicletta, soffrendo, persistendo, condividendo, sperando. Quale turista nel mondo potrà mai essere più contento di un pellegrino che arriva a Santiago?

 

Mentre scrivo mi arriva un messaggio di Carlos. “Querida Lisa, espero que te encuentres muy bien y que tus pies esten listos para pedalear, espero que me envies un mensaje cuando termines la ruta, y si tengo bisogno di aiuto lui sarà sempre pronto ad aiutarmi ah ah ah… (Carlos è un’autista di ambulanze, per farvi capire l’ilarità della frase)”.

L’altro giorno, prima di partire, ho comprato uno zaino leggero, ci ho buttato dentro un sacco a pelo e ben poco altro e al mattino presto ho attraversato a piedi la piazza deserta della cattedrale e ho iniziato la breve avventura che mi ha condotta a Finisterre.

Finisterre, la fine del mondo conosciuto, Finisterre e il suo faro in prossimità di una scogliera scoscesa. Finisterre e l’oceano. Finisterre, oltre la quale non c’è oltre.

Ho camminato tre giorni per arrivarci, cento chilometri e ventitre ore di passi, uno dietro l’altro, in una successione più o meno veloce a seconda della stanchezza e del dolore. I piedi distrutti, i muscoli straripanti di acido lattico. Camminare non è pedalare, ciò che fa male in bicicletta non fa male quando a procedere si è a piedi. E viceversa. Riscoprire l’esistenza di parti del tuo corpo che avevi ormai dimenticato. Riscoprirle senza pazienza e senza pietà.

Il secondo giorno procedo a chupitos. Ho tante vesciche sulla pianta del piede e per ammorbidire un po’ il male non trovo rimedio migliore che fermarmi ad ogni bar che trovo per la via e bermi un paio di chupitos(una sorta di grappa nostrana) che mi permettano di sentir un po’ meno.

Il secondo giorno vorrei mollare tutto e prendere un autobus che mi riporti a Santiago e alla felicità modesta della mia stanzetta fumosa. Troppo strazio, troppo danno, chi me lo fa fare? Ma poi è successa una cosa che ben conosco, un fenomeno per cui il corpo decide che ne ha avute abbastanza e che è ora di far qualcosa per non torturare oltre nervi e recettori. Non so come si chiami questo fenomeno ma so che raggiunta una certa soglia del dolore non si può andare oltre e che da quel punto inizia la discesa, una strana forma di anestesia che ti fa sospirare sollevato. Il male diventa sopportabile e all’improvviso la prospettiva di altra sofferenza appare accettabile. Si continua, il nostro corpo è sempre più forte di quanto crediamo. Specie quando la mente naviga in acque serene e trasportata dalla giusta corrente. Specie quando non si è da soli.

O forse ero semplicemente talmente ubriaca che.

Il primo giorno conosco Carlos. Lo saluto mentre beve una birra in un bar e lui più tardi mi raggiunge e continua a camminare con me fino a Finisterre. Carlos ha fatto il cammino francese a piedi, viaggia da più di un mese in cerca di un po’ di serenità. Ogni pellegrino inizia la sua strada verso Santiago per un qualche motivo. Per dimenticare, per capire, per migliorare, per non star da soli, per trovare. Partire e non sapere cosa il cammino ci offrirà, se riuscirà a darci risposte o a farci sentire un po’ meglio. Carlos non è felice, si è separato dalla moglie e da poco gli è morta la madre. E’ un uomo inquieto, ha cambiato lavoro mille volte e mille altre volte lo cambierebbe. Gli piace aiutare la gente, guidare, essere protettivo e al contempo scherzare come un bambino. E’ timido e si innamora facilmente, come tutte le persone che non godono di molta autostima e che sopravvalutano quei pochi che concedono loro attenzioni e sorrisi. Persone che non vorrebbero rimanere sole e invece. Persone a cui piacciono le persone, persone generose che darebbero se stesse per gli altri e invece. E invece.

Carlos si prende cura di me per tre-quattro giorni, io lo lascio fare perchè so che ho bisogno di stare in compagnia e di non dovermi sempre arrangiare e lui è una bella persona, paziente, altruista e rispettoso degli spazi altrui. Non potrei chiedere compagno di viaggio migliore. E poi so che anche a lui fa bene condividere questi chilometri con qualcuno disposto ad ascoltarlo e magari anche a capirlo. Però so anche che a Carlos io posso causare altro dolore, perchè se si lega troppo a me poi si ritroverà di fronte a un altro muro. Io per lui non posso essere che una strada a breve termine, 100 km di sola amicizia, per l’esattezza.

Ad ogni modo, trascorro tre giorni bellissimi, difficili ma leggeri per il mio stato d’animo. Finalmente posso cucinare per qualcuno, bermi una birra in compagnia, sorridere di fronte a un paesaggio meraviglioso sapendo di trovare la stessa espressione deliziata negli occhi di qualcun altro. Condividere. Gioia e dolore, nella buona e nella cattiva sorte.

Paesaggi a parte questo “breve” cammino tra Santiago e l’oceano è incredibilmente cambiato dalla prima volta che l’ho percorso. Cinque lunghi anni fa. Nel paesino in cui trascorriamo la seconda notte, Olveiroa, ricordo di aver trascorso una serata meravigliosa. Eravamo in mezzo al nulla, in questo pueblo di quattro anime, senza nemmeno un negozietto di alimentari in cui rimediare una parca cena. C’era solo un bar, ma non aveva nemmeno il pane per farci qualche panino perchè quel giorno il camioncino del fornaio non era passato. Un bicchiere di vino, una birra mediocre, era tutto quel che poteva offrirci. Però l’albergue era gestito da una hospitalera gentile, che per cena aveva cucinato un pentolone di zuppa di lenticchie e chorizo(salsiccia). Pane, un po’ di vino e una tavolata di pellegrini stanchi e affamati che condividevano un pasto modesto e buono. Tutti assieme, come una società perfetta.

Ora di bar ad Olveiroa ce ne sono tre, moderni e attrezzati di tutto punto. Per cenare non c’è che da scegliere bar, tavolo e menù. E compagnia. I pellegrini che sostano ad Olveiroa ora non sono più un gruppo ma tante piccole società che vivono entro i propri confini.

Il terzo giorno arrivo a Finisterre e sono contenta perchè per arrivare fino al faro ho percorso 40 km, massacrato i miei piedi per 9 lunghe ore, nella pioggia e nel freddo. Eppure c’è qualcosa che manca, una sorta di vuoto che imprigiona i miei pensieri.

Sdraiata su un muro, vicino al faro, fisso il cielo che si sta finalmente schiarendo e mi ritrovo a chiedermi se sono davvero dove vorrei essere, se tutto questo davvero mi basta. La scogliera e l’oceano, non c’è oltre e non resta che tornare.

 

 

 

 

IL PESO DEI PROPRI PASSIultima modifica: 2009-05-27T21:05:00+02:00da betterbequiet
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