HASTA SIEMPRE!

 

19 MAGGIO


Mi sveglio e quando tiro su la persiana della mia cameretta non trovo più Campobecerros. Scomparso, inghiottito dalla nebbia. Non che a che questo paese serva molto, in effetti, per mimetizzarsi col nulla. Le case di roccia, i tetti di ardesia, la modestissima illuminazione. Un po’ di nebbia e scompare. Dall’alto sembra un mare di neve in cui le punte scure dei pini affiorano come scogli. Bellissimo.

Faccio colazione, pago una cazzata per vitto e alloggio, saluto e metto un cambio leggero. Si inizia subito salendo. Ma non per molto; una volta abbandonata la strada ci si tuffa in una infinita discesa su sterrato, al termine della quale arrivo a Laza, con le braccia che mi fanno male e i piedi gelati e insensibili a qualsiasi stimolo. Se continuo con sto freddo finirò con l’ammalarmi o col perdere per sempre l’uso degli arti inferiori. Ma non c’è di che preoccuparsi in verità, perchè pochi km più tardi mi ritrovo ad affrontare una via crucis.

Esistono due alternative per arrivare ad Albergueria: una lunga su strada, una meno lunga su sterrato. Io che mi sento molto pellegrina oggi reputo ovviamente migliore la scelta della via selvaggia. Maledetta. La via e io che l’ho scelta.

Seicento metri di altitudine, 4 stracazzo di chilometri su un sentiero ripido quasi quanto una linea verticale e disseminato di rocce. Impossibile arrampicarcisi in bici. Mi tocca scendere e trainare 35 kg di bagaglio sotto un sole cocente. Una fatica che chi non l’ha mai provata non ha idea… La bici va tirata su di braccia perchè le ruote chiaramente si incastrano continuamente sui solchi tra un masso e l’altro. I polpacci mi esplodono, il sudore mi cola anche dalle orecchie, il fiato mi si frantuma tra le costole. Ogni metro è una conquista e devo fermarmi ogni dieci passi per evitare il collasso. Penso che se Cristo avesse potuto scegliere tra il trainare la sua croce o la mia bicicletta su questo sentiero impestato-cane-mortacci-tua, quasi sicuramente avrebbe scelto i suoi due travi di legno facendomi un segnaccio col braccio.

Comunque alla fine ce la faccio, arrivo alla cima e ora che sono alla fine della mia scalata mi sento un dio, forte e invincibile e sono pure fiera di non aver scelto la strada perchè vuoi mettere la soddisfazione?

Ad Albergueria faccio sosta a un bar bellissimo. Già da fuori sento le note di un buon jazz e quando entro trovo ad accogliermi un burbero grande e grosso, con la barba bianca e lo sguardo schivo. Il genere di persona che mi piace molto. E poi faccio navigare un po’ la sguardo in giro. Ovunque ci sono conchiglie, simboli del cammino di santiago che ricoprono ogni parete, ogni colonna, ogni angolo. Una per ogni pellegrino che di qui è passato. Una in più dopo il mio passaggio.

A metà pomeriggio arrivo finalmente ad Ourense, una cavolo di città iper industrializzata da cui non vedo l’ora di andarmene. L’albergue per pellegrini in cui trascorro la notte però è molto bello, un ex convento restaurato, con cucina e letti comodi e bagni con tanta carta igienica. Qui conosco Martine, una quarantenne francese timidissima, costretta da una gamba gonfia a un riposo forzato. Parliamo dei nostri precedenti viaggi e scopro che, come quasi tutti quelli che percorrono la Via de la Plata, anche lei non è nuova a questi pellegrinaggi. Li ha già percorsi quasi tutti e sempre con lo stesso sorriso, la stessa ironia, lo stesso modo di atteggiarsi, introverso e impacciato, che ha anche ora. Timida e forte, arrossisce quando la abbraccio per salutarla ma si prende in giro per la sua gamba malata.


20 MAGGIO


Oggi non va. Non riesco più ad uscire da Ourense perchè non trovo indicazioni. Allora mi fermo a chiedere informazioni a un gruppetto di vecchietti che parlano animatamente tra loro. I vecchi la sanno sempre più lunga e sono anche contenti di poter essere d’aiuto a sti poveri malcapitati… “Da che parte devo andare per il cammino verso Santiago?”, chiedo educatamente. E qui scoppia la discussione. “A destra, tutta dritta, basta che segui la nazionale”, mi dice quello più simpatico. “No, se vuoi seguire il vero percorso per Santiago allora deve andare a sinistra”, lo riprende quello che sembra più campanilista. Quindi io mi ritrovo a dover scegliere: a destra traffico e semplicità, a sinistra vero spirito da pellegrino ma difficoltà. Cretina come sono, siccome non mi bastava la via crucis del giorno prima, scelgo la variante più complicata. Cioè quella che mi riduce a un mucchietto di muscoli spappolati e ossa consumate.

Appena usciti dalla città ci si ritrova ai piedi di una salita che solo a guardarla farebbe passar la voglia pure a un ciclista per professione. Venti per cento di pendenza, per 3 km di assoluta tortura. Ed essendo io orgogliosamente masochista mi impunto di doverla assolutamente fare tutta sui pedali. Sia mai raggiungere la cima a piedi! Ce la faccio, pedalata dopo pedalata, a una velocità media di 4 km/h, sfruttando tutto quel che avevo e forse anche più. Arrivata in alto una signora in auto si ferma a congratularsi. “In genere ci arrivano tutti spingendo la bicicletta”, mi confida ammirata. E a me viene il dubbio. Incapaci loro o cogliona io?

Ma non finisce qui. Seguo le famose frecce gialle che indicano la via de la plata e ste stronze mi portano lungo sentieri impraticabili che sono costretta a fare a piedi. Ventimila maledizioni, tante ore e pochissimi km. Non ne posso più e quando finalmente mi immetto sulla nazionale mi ritrovo a dovermela fare tutta in salita, lungo una strada che è noiosa quanto una canzone schifosissima, suonata ininterrottamente per giorni.

Per dio, non ne posso più, non ho più forze, i nervi mi sono saltati per sempre e mi ritrovo a maledire questo stracazzo di viaggio e a pensare che forse è meglio mollare, arrivare e fermarmi al primo paese che trovo, prendere un taxi fino a santiago e poi da lì un aereo per tornare a casa. Vaffanculo la fatica, le difficoltà, gli imprevisti, le salite e lo smarrire la via. Vaffanculo a me che non ho di meglio da fare che massacrarmi con ste cose. E vaffanculo anche a chi ha inventato sto cazzo di cammino e bim bum bam.

Borbotto ad alta voce, senza prendermi troppo sul serio. Mi conosco, so già che domani avrò cambiato idea.

Mi fermo a Castro Dozon, un paese di quattro anime in cui nessuno ha voglia di lavorare, dove conosco un gruppo di veneziani, abitanti delle canarie(canarini?) e vicentini con cui strascorro una bella serata. La notte dormo poco a male, a causa della digestione difficile e di un gatto che trascorre ore felici dormendo sul mio cuscino. Cioè a un certo punto mi sveglio e mi ritrovo un qualcosa di peloso che fa le fusa accanto al mio viso. Lo lascio là perchè non vorrei rompere la sua felicità perfetta. Ma il gatto poi s’allarga tentando ripetute volte di infilarsi nel mio sacco a pelo. E a quel punto il suo idillio si rompe…

 


21 MAGGIO


Santiago. Mi venivano le lacrime mentre stavo per arrivarci. Al solo pensiero di tagliare il traguardo del cartello che segna l’inizio della città e poi di navigare per la piazza oceanica della cattedrale, mi veniva da piangere per la gioia. Poi sono arrivata, ho scattato le foto di rito e non ho versato una lacrima. Qualche sorriso, quello sì. Diamine, mille chilometri sono tanti, me la merito un po’ di soddisfazione almeno, no?

Finora ho trascorso 73 ore effettive sulla sella (credo possiate immaginare la gioia delle mie chiappe), scalato un’altitudine complessiva di oltre 10.000 m (e quella dei miei polmoni), dormito in 17 letti diversi (qualcuno potrebbe darmi della mignotta). Inoltre ho detto Hola o Buenas dias ad almeno 300 persone (qua in Spagna salutano tutti), ho bevuto una media di una birretta-virgola-due al giorno e sofferto di stitichezza per numero 3 giorni. Non ho mai cucinato. Non ho mai perso nulla. E non ho mai avuto paura.

Ho raggiunto il centro della città senza troppi problemi, ho fatto due chiacchiere col ragazzo che mi ha scattato LA Foto di Rito (io e la bici sudate, stanche e sorridenti di fronte alla cattedrale), sono andata all’ufficio del pellegrino a ritirare il mio attestato di pellegrinaggio (non so perchè sul certificato hanno scritto che a percorrere la via de la plata è stata una certa Ludovica Cazzaro), quindi ho girato un po’ in cerca di una camera e al primo tentativo, infallibile come sempre, ho rimediato uno sputo di stanza (5 metri quadri) dall’intenso odore di fumo stantio, dai muri scrostati, priva di finestra e con tanto di bagno in comune con altri 10 ospiti dell’allegra casa. Il tutto per la nobile cifra di 14 euro per notte. Però, a mia discolpa, devo dire che sono in pieno centro e che la mia bicicletta gode di un alloggio privilegiato tutto per sé. E poi anche se sono soltanto 5 metri quadri sono pur sempre 5 metri quadri di pura privacy. Non so se abbiate presente cosa sia dover condividere ogni giorno il tuo spazio vitale con gente che non conosci. Non poter tirare fuori la roba dallo zaino, non poterti mai grattare in zone poco serie, non far rumore, non scaccolarti, non fare o dire nulla che chi ti sta di fronte non possa capire (Bob Dylan). E poi quando dormi in una camerata hai talmente poco spazio a disposizione che stì 5 metri quadri a confronto sono una suite.

E poi che altro ho fatto oggi? Beh, mi sono lavata, sono uscita a far due passi, ho mangiato un gelato e contemporaneamente chiamato a casa, ho gironzolato un altro po’, comprato due cartoline, bevuto una birra seduta ad un tavolino nella piazza principale, abbracciato S. Giacomo(il santo protettore dei pellegrini. Più che un abbraccio gli ho dato due pacchette sulla spalla. Tante grazie vecchio), fatto un salto all’ufficio turistico, girato con la mappa per individuare negozi di interesse (vedi alla voce: supermercati, pulperie e articoli sportivi), mangiato un signor kebap, comprato acqua e coca-cola zero, speso un’ora a rincoglionirmi davanti a un pc di un antipatico internet point.

E ora eccomi qua. A rincoglionirmi davanti a un pc, in 5 puzzosi metri quadri.

Mentre fuori. Tutti i pellegrini. Che non sono giunti fino a Santiago da soli. Festeggiano. E dicono cazzate. Con qualcuno che li ascolta. O che almeno finge di ascoltarli.

Mentre io.

Mentre io aspetto fiduciosa giorni migliori.

E la verità è che mi sento sola, perchè ho portato a termine qualcosa di estremamente difficile ma non ho nessuno con cui brindare all’impresa. Pazienza. Che altro altrimenti?

22 MAGGIO

Sto qua seduta in piazza a sfruttare la connessione wi-fi di un vicino bar. Osservo i pellegrini che continuano ad arrivare dopo 1000, 800, 3000 o forse soltanto 100 km percorsi a piedi. Giorni, settimane, per qualcuno addirittura mesi. Attraversano la piazza guardandosi in giro, sorridendo alla cattedrale. Qualcuno in dignitoso silenzio, qualcun altro ululando per la gioia o abbracciando i compagni di viaggio. Vedo queste persone che hanno affrontato fatiche, pioggia e sole, gioire e provare dentro di sè delle sensazioni meravigliose. Li vedo arrivare tra l’indifferenza di chi invece non prova nulla, di chi quì ci abita o ci viene a trascorrere un week-end di vacanza. Pellegrini tra la gente comune, come margherite in un prato.

Di fianco a me c’è un uomo con la barba grigia che si guarda attorno sereno. Lo ignoro, mentre scrivo al pc, finchè non arriva una donna che lo saluta come si saluta un vecchio compagno di viaggio. Li lascio parlare, ritorno al mio schermo piatto ma giro di nuovo la testa verso la loro direzione quando la donna lo riabbraccia per congedarsi. Un altro addio. Un viaggiatore è abituato agli addii, o almeno dovrebbe. Lui la guarda allontanarsi, la guarda come un uomo di mezz’età guarda una bella donna che ha desiderato ma che non potrà mai avere. Poi tira fuori la macchina fotografica e le scatta una foto. Un puntino rosso che si allontana verso il centro della piazza. Sarà il ricordo materiale che si porterà a casa di lei.

Domani parto per un trekking di 120 km. Raggiungo Finisterre a piedi, sono stanca di pedalare, ho voglia di assoluta lentezza, di sentire passo dopo passo tutto il peso del mio corpo. Ho voglia di ritrovarmi nei rifugi con chi ha vissuto come me le stesse fatiche durante il giorno, di condividere sensazioni e impressioni. Ho voglia di camminare.

E nel frattempo me ne sto quì in piazza a patire il freddo, vestita con poche cose perchè tutti gli altri indumenti li ho portati a lavare. Mangio ciliege, confido nei crampi allo stomaco e penso a domani sapendo che domani pioverà e che io sarò là a camminare sotto la pioggia e a  inzuppare di fango i vestiti che oggi ho portato in  lavanderia.

HASTA SIEMPRE!ultima modifica: 2009-05-22T19:55:00+02:00da betterbequiet
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