EL CIARLATANO DE SALAMANCA

EL CIARLATANO DE SALAMANCA

La vecchia bottega di biciclette nella prima periferia della città. La vetrinetta poco invitante e in bella mostra qualche pezzo di ricambio di fittizia qualità. L’importante è saperli vendere, poco conta la sostanza.

Entriamo dalla porta di vetro e ferro smaltato di rosso. In un angolo un vecchietto, dal non individuato ruolo, ai lati i curiosi dal saluto pronto e le mani incrociate dietro la schiena. E di fronte, sorridente e simpaticone, ci viene incontro il meccanico. El ciarlatano. Indossa una tutina blu unta di grasso e impegno che gli stringe la pancia fiera. Le scarpe vecchie di vent’anni, i capelli pettinati e la faccia perfettamente rasata. Ci viene incontro pulendosi le mani su uno straccio.

Sfodera battute, si sfrega le mani osservando la mia bella e costosa cannondale. Gli spiego il problema, il cambio non va: salta, rumoreggia, sfancula la catena. El ciarlatano mi ascolta con attenzione, dopodichè parte all’attacco. Mi ammorbidisce per bene elogiando la qualità della mia bicicletta, mi chiede del cammino e delle solite cose, quindi, appesa con eleganza la bici ai sostegni, si appresta ad una competente analisi. La diagnosi è rapida e non ammette repliche. Una sentenza. Il cambio è messo molto male.

Il meccanico in tuta blu ostenta una sicurezza e una competenza imperturbabili, muove le mani velici, fa girare i pedali e scattare i rapporti come una romagnola doc stenderebbe una sfoglia di pasta.

Mi lascia due minuti a disperarmi e quando finalmente gli chiedo che si può fare sa di avermi in pugno. Sorride sornione. Lui, in quanto abilissimo meccanico può lavorarci un po’ su, sincronizzare il cambio, oliare con un prodotto speciale il tutto. Ma questo non risolverebbe per sempre il problema, che potrebbe ripresentarsi più avanti, come un herpes. La cosa migliore sarebbe sostituire il cambio, fatto ciò, fine dei problemi. Certo ti costa più di una semplice riparazione, il doppio per la precisione, ma è una soluzione definitiva. Me la vende come la scelta più conveniente. Quindi passa ad espormi i vari modelli di cambio. Mi fa vedere prima i più costosi, cento e passa euro e poi, di fronte alla mia incertezza, mi propone una soluzione ottima ed economica. Ecco quì il modello perfetto, quello con il miglior rapporto qualità-prezzo. Me ne parla come di un figlio, lo rigira tra le mani con orgoglio, mi chiede di constatarne la leggerezza e qualche altra cosa che mi sfugge. Io non so che fare, da una parte questa soluzione radicale mi alletta, dall’altra parte la sostituzione di un componente mi pare esagerata. Guardo Rafael, in cerca di consiglio. Lui è stato zitto e in ascolto tutto il tempo. “Fattelo sincronizzare, non lo cambiare, esto es un ciarlatano”. E così faccio. Gli lascio la bici e vado a recuperarla l’indomani. Ventotto euro per regolare un cambio sanissimo e per riempirlo eccessivamente di grasso. Provo la bici, funziona bene, lo pago e, senza dargli il tempo di tornare alla carica, me ne esco e vado via.

Chiude la porta e si gratta la pancia serio, el ciarlatano. Anche per oggi s’è guadagnato la giornata.

15 MAGGIO

Quant’è dura lasciare la bella Salamanca. Ma ne vale la pena perché, al di là dei poco entusiasmanti sessanta-et-rotti km e del freddo micidiale che devo sorbirmi di malavoglia, sto andando a Zamora, un’altra perla di questa regione. Vecchie chiese, vecchi bar, tante dulcerie e un albergue nuovo dai letti ultracomodi. E poi una sorpresa. Quando arrivo in plaza Mayor trovo Gaus e Alvin, i due super ciclisti austriaci conosciuti qualche giorno prima e poi scomparsi. E’ bello conoscere già qualcuno in un posto sconosciuto. La sera, con un altro paio di austriaci decidono di provare l’ebbrezza delle varie tapas locali e io ovviamente mi aggrego all’allegra compagnia, perché ho voglia di tutto fuorchè di cenare da sola.

Scoviamo un baretto dall’aspetto familiare e cominciamo a ordinare di tutto, trenta piattini in cui le parti più strane del maiale la fanno da padrone. Orecchie, cotenna, naso, stomaco. E’ buono tutto, complice la fame forse. E poi mi diverto e sto bene. Alvin mi fa da papà e Gaus mi prende per il culo per le mie gambe corte. Alvin, che è sempre ordinato, ben vestito e col sorriso pronto e Gaus, che sembra un falco con quei capelli a spazzola, l’uomo dalla perfetta resa atletica e dalla perfetta organizzazione di viaggio.

La notte, dopo tanto cibo, calde risate e qualche birretta fresca, dormo divinamente e al mattino mi sento meglio del giorno prima. Saluto con un po’ di tristezza i miei amici austriaci, loro oggi devìano la loro direzione verso Madrid. Saluto tristemente anche Maria, una cinquantenne inglese dagli occhi super azzurri con cui mi piaceva da morire parlare, e Pristillo, lo spagnolo più gentile e sorridente che abbia mai conosciuto. Da questo momento in poi so che se vorrò conversare, lamentarmi o scherzare con qualcuno lo potrò fare soltanto con la mia bicicletta.

16 MAGGIO

Allora via, si parte senza una destinazione precisa. Va dove ti portano le gambe. E i polmoni. Oggi abbandono la Via de la Plata, che prosegue dritta per congiungersi ad Astorga al cammino francese, e devio a sinistra verso il cammino Sanabres e la desolazione dei paesini che lo “animano”.

Stamane sono in vena di distanze, di sfruttare le mie risorse, di vivere un’altra giornata di cui ricordarmi a lungo. E non importa quanto soffrirò, quanto chiavica mi sentirò il giorno dopo, quanto maledirò la mia ambizione e varie altre cose. Lo faccio e basta, armata soltanto della consapevolezza che sto facendo una cosa giusta e che col senno di poi sarò contenta di averlo fatto. E io di queste cose voglio fare una bella catasta, di modo che, se un giorno non sarò più in grado o non avrò più voglia, potrò almeno far svolazzare qualche farfalla ricordando quest’esperienze. E poi credo sia giusto vivere le più svariate situazioni. Essere consapevoli di cosa si prova quando si patisce la sete o quando si deve andare avanti ma si hanno più forze per farlo. Quando si ha la febbre lontani da casa, lontani dall’aiuto delle persone care. E poi mettersi a tavola con gente che non si conosce, percorrere strade nuove ogni giorno e ogni giorno vivere un’esperienza diversa. Inzupparsi di pioggia, conoscere persone meravigliose e dir loro addio il giorno dopo. Provare tutto ciò che la quotidiana routine ci preclude, arricchirsi di sensazioni nuove.

Non mi fanno paura la solitudine, il dolore, le privazioni, l’insicurezza, la precarietà, il controllo dei propri nervi, la stanchezza. Non mi fanno paura per il semplice motivo che io so per certo che in qualche modo me la caverò e che più sarà difficile più mi arricchirà e più me ne ricorderò con piacere. Buttarsi e non aver paura di cadere.

Oggi è stata una giornata da aggiungere alla famosa catasta. 87 km, di cui 80 controvento. Uno strazio. Il vento forte che ti spazza via le forze e consuma la volontà. Le raffiche che ti prendono a sberle, tu che cerchi di reagire alzandoti sui pedali e accelerando e poi di nuovo un’altra raffica che ti rimette seduto e ti fa calare la testa. Tu che avresti voglia di fermarti e aspettare che smetta. Invece non molli, non puoi, dove cristo ti fermi in questo nulla, dove trovi riparo? Da nessuna parte. Devi andare avanti e quindi vai, pedalata dopo pedalata, respiro dopo respiro, con quel cazzo di contachilometri lentissimo sempre davanti agli occhi. E nella sofferenza, in questa prova di resistenza psico-fisica, i paesaggi incantevoli della Spagna. Le lunghe strade che si perdono in queste distese infinite. I campi coltivati e la terra rossa, un tremolio di montagne all’orizzonte, le nuvole basse e veloci. Mi sembra di essere in Nuova Zelanda, la stessa leggerezza, la stessa sensazione di immensità.

Quando finalmente attracco sulle sponde del fiume Rionegro trovo un paesetto semi-deserto, con una manciata di case, due baretti e un albergue per pellegrini. Entro a perlustrare quello che sarà il mio tetto per la notte, è quasi pieno ma un letto lo trovo comunque. Saluto i presenti ma solo un paio di loro ricambia, e di malavoglia, il mio hola. Anche qui aleggia la solita avversione per i ciclisti. Pazienza.

La sera conosco Giorgio e Franco, due trevigiani che mi invitano al loro tavolo quando entro in uno dei due bar per cenare. Giorgio è un bonaccione sorridente e Franco un sapientino nervoso ma efficiente. E poi conosco con gli sguardi un ragazzo francese. E’ bello e timido, mi sorride quando ci incrociamo e io avrei voglia di parlarci ma non so che dirgli, in che lingua parlare. Lui parla solo francese e una conversazione tra di noi sarebbe impossibile. Ci scambieremmo soltanto qualche gesto, qualche incomprensione. Allora meglio non conoscersi ma rimanersi a vicenda una bella impressione.

17 MAGGIO

Cazzo che freddo. E’ tutto ciò che riesco a pensare oggi. Percorro 45 km, tutti in salita, tutti controvento e tutti maledettamente gelidi. Ci sono 5 gradi e troppe nuvole per sperare nell’aiuto del sole. Le tre ore e mezza più dure di tutto il viaggio. Mi pare di morire. Ho le gambe di piombo, il naso che cola senza tregua. Sudo per la salita e il sudore poi mi si ghiaccia addosso. Il freddo mi consuma e mi brucia la faccia. E poi mi si risvegliano i vecchi cari dolori intercostali che ad ogni respiro mi trafiggono da parte a parte. Non ne posso più, per dio, non ne posso più davvero stavolta, ho i brividi, non ho più forze e tutto attorno è grigio e brutto. Riesco ad arrivare a Requejo, uno sputo di paese perso nelle montagne. Il rifugio per i pellegrini qua è inutilizzabile ma io ho bisogno di un posto dove dormire, non ce la faccio a proseguire, quindi mi attacco al campanello di un hotel chiuso. Alla fine mi apre una signora che fortunatamente ha voglia di guadagnarsi due soldi. Trascorro mezz’ora sotto la doccia caldissima, quindi una zuppa e un po’ di merluzzo al vicino bar. Tre bicchieri di vino per favorire la siesta. Sto meglio. Ma che schifo di giornata.

Cerco di riempire il nulla sonnecchiando, guardando le ultime partite del Madrid Open alla tv. Guardo la pubblicità. Ce n’è una di un deodorante in cui la protagonista, una donna bellissima in biancheria intima, si butta giù dal suo balcone al terzo piano. Durante la caduta due donne sporgendosi da una finestra le fanno infilare un tubino elegante. Quindi la donna atterra, si sistema un attimo i capelli e sorride. Oltre ad arrovellarmi il cervello per riuscire a cogliere( tentativo vano) un nesso tra sta scena e un deodorante, scrivo. Leggo qualche sorso de “Il vagabondo delle stelle” di Jack London. Un libro scritto da un vero uomo di strada che parla di viaggi mentali. Non potevo scegliere libro migliore. Sgranocchio biscotti al cioccolato, sogno un sacchetto di patatine fritte. Alla fine mi decido di mettermi definitivamente a letto. Chiudo gli occhi e penso al buio sforzandomi con tutte le forze di non pensare a ciò che mi aspetta domani. Un’altra giornata come quella di oggi e potrei iniziare seriamente a chiedermi se ne vale davvero la pena…

18 MAGGIO

Splende il sole, splende il sole su queste montagne scontrose e su quest’asfalto solitario!

Una giornata così bella, fredda ma senza vento, mi fa tornare immediatamente le forze e la voglia di macinar chilometri. Arrivo a La Gudina lasciandomi alle spalle due passi di montagna che col tempo di ieri non avrei mai potuto affrontare. Sono stanca e soddisfatta, ho fame per dio… allora mi fermo a un cavolo di bar, chiedo un panino con formaggio e pomodoro e cinque minuti più tardi mi vedo arrivare una bestia di mezzo metro, imbottita di mezzo kg di formaggio. Ne mangio metà, un altro boccone e mi addormenterei sulla bici, e l’altra metà me la faccio incantare e me la metto in valigia per i tempi duri.

Fa tanto freddo anche oggi e oltre a tante energie mi pare di consumare anche tante calorie in questi giorni. Così mi fermo al supermercato e compro una stecca di cioccolato formato famiglia-golosa. Il bello di tanta attività fisica è che ci si può permettere qualsiasi schifezza iper-calorica, senza troppi sensi di colpa.

Pago e poi chiedo alla taciturna cassiera di indicarmi la via per Campobecerros e scopro che la poveretta non mi parlava per semplice incapacità. Deve avere un qualche problema alle corde vocali perché parla utilizzando un apparecchio elettrico. La voce metallica, robotica, sembra incomprensibile. Ma non per me. Il fatto che usi parole semplici, prive di accento, rende le spiegazioni di questa donna incredibilmente chiare alle mie orecchie ignoranti. La ascolto con attenzione, senza tradire alcuna espressione di sorpresa. Capisco tutto che mi dice e alla fine le ripeto il tutto per aiutare la mia memoria. Lei è soddisfatta quanto me e prima che me ne vada mi stringe forte la mano e mi augura un buon cammino e tanta fortuna sempre. Me ne esco con mezzo sorriso, per qualche motivo mi sono sempre piaciute le persone con difetti fisici. Le trovo più sensibili, più delicate, forse per tutta la sofferenza che quel difetto gli ha causato.

Quella per Campobecerros è la parte di tutta la strada percorsa finora che preferisco. Ci si arrampica fino a raggiungere la cima delle montagne che si allungano verso la costa, quindi si procede tra morbidi saliscendi rimanendo in quota. In alto e tutt’attorno le distese senza limiti che ci si è lasciati alle spalle. Un lago blu più del cielo e le ombre delle nuvole corpulenti che gravano sui campi di terra mai coltivata.

Fatico e respiro aria fredda nel sole perfetto e ho lo stomaco teneramente pieno e il cuore che batte deciso per farmi digerire e per muovere le mie gambe corte e forti. E sto bene, mi sento parte di questi paesaggi solitari e sereni, mi sento leggera. Libera. Sono contenta con ogni singola cellula del mio corpo.

Mi viene in mente una frase di una canzone, “un uomo libero è un uomo felice”. Si, ma non sempre, la libertà a volte non è facile da gestire. Però è sempre vero il contrario: un uomo felice è un uomo libero. Allora non importa cosa si faccia, dove ci si trovi o con chi. Avventure, vita ordinaria, posti incredibili, il salotto di casa. La libertà sta dove si è felici.

Cinque ore di sella e 1500 m di salite più tardi decido di fermarmi per la notte proprio a Campobecerros, di non proseguire per altri 14 km fino a Laza. Ne avrei le forze ma non voglio approfittarne troppo, e poi questo paesetto minuscolo e pecoreccio mi piace.

C’è un hostal che è anche bar e ristorante e negozio di alimentari. Mi ci fermo, chiedo se hanno una stanza disponibile e una vecchietta mi risponde in maniera incomprensibile. Intuisco dalla sua mimica che la risposta è si, dopodiché è l’oblio. Qua parlano un dialetto tutto loro, un misto tra spagnolo, portoghese e pugliese. Mi sforzo ma non ci capisco una mazza. Aspetto mezz’ora prima che qualcuno si decida a indicarmi una via. La vecchietta mi trascina nella sala da pranzo vuota e mi obbliga a pranzare (sono le 16). Vabbè, non ho molta fame ma mi siedo al mio tavolo senza obbiettare; mangio ora così sono a posto fino a domani. Poco dopo mi viene servito un piatto enorme di paella. Buona ma come pensano che riesca a finirla? Intuisco l’andazzo e allora chiamo la vecchia signora scongiurandola di non portarmi anche il secondo. E’ una lotta. “Ma per secondo c’è il filetto con le patate fritte!” (ah, qua non si usa scegliere cosa mangiare, si mangia ciò che viene servito e basta). “Si, capisco signora(insomma, capisco è una parola grande ma vabbè…), però io davvero non ho più fame e preferisco che il filetto non venga sprecato”. Beh, ok, non mi sono spiegata usando esattamente queste parole ma alla fine l’ho avuta vinta. Niente filetto. “Però almeno ti becchi le patatine!”. Obbedisco.

Mi alzo dal tavolo piena come un uovo, torno al bar per fare quattro incomprensibili chiacchiere con i gestori. Stranamente più che a quello che sto facendo, sono interessati a mio fratello. Quanti fratelli siete, quanti anni ha tuo fratello, è sposato, ha figli, che lavoro fa. Intuisco che devono avere una figlia da piazzare…

Intanto passano le ore, le 17 e mezza e io ancora non sono riuscita a mettere piede nella mia stanza. Ogni volta che chiedo notizie del mio alloggio cambiano discorso e ripartono con le cose incomprensibili. Mi pare di essere in un manicomio e anziché spazientirmi mi metto a ridere. Sto posto è un’esperienza tragi-comica, di quelle che colorano un viaggio.

EL CIARLATANO DE SALAMANCAultima modifica: 2009-05-22T12:38:01+02:00da betterbequiet
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