TIGLIO

Avevo uno zio, anzi un prozio, che di nome faceva Attilio. Ma tutti lo chiamavamo Tiglio. Come l’albero.

Era l’ultimo nato di una famiglia numerosa e strana e da giovane aveva fatto la guerra. Magro, alto, un fisico gracile, balbuziente e ovviamente timido oltre l’immaginario collettivo. Un giorno era partito e non so bene con che mezzi era arrivato nell’estremo sud dell’ex Jugoslavia.

Non ha mai sparato a nessuno, svolgeva un lavoro d’ufficio, l’unica guerra la combatteva contro le zanzare per non portarsi a casa la malaria. Ma non si è mai sentito in pericolo di vita. Almeno finchè le battaglie son cessate ed è venuto il momento di tornare in patria.        A piedi.        Soli.        Attraverso terre scavate dalla fame e dalla disperazione.       Evitando popoli ladri a cui le passate bombe e i fucili avevano tolto per sempre ogni scrupolo.

Tornare a casa, mi diceva mio zio Tiglio, è stata la cosa più spaventosa che abbia mai fatto.

Prima della guerra lavorava come fuochista in una fornace. Un lavoro duro e crudo, da uomo temprato,  che poco si addiceva al suo carattere docile ed eccentrico. Non poteva durare, non ci si può intestardire troppo contro le proprie attitudini. Così mollò e dal fuoco passò alla terra. Lui era un albero.

La fragilità di un’insalata, la purezza di un germoglio, l’armonia di mille sfumature di verde. Nel dopoguerra mio zio Tiglio diventò il primo vivaista del paese.

Le sue erano le più belle piantine del reame, coccolate e viziate da gesti delicati e attenzioni amorevoli. L’attività procedeva con naturalezza, mio zio lavorava, i semi germogliavano, la gente del paese comprava e ritornava. E avanzava pure tempo per coltivare altri interessi. Leggeva e chiedeva, provava e imparava, costruiva giocattoli di legno e rattoppava le ruote della sua bici. Era sereno, un albero rigoglioso in armonia con le stagioni.

Poi arrivarono gli anni ’70. La prima televisione con antenna. La patente. I pennelli sempre più consumati e l’odore calmante dei colori ad olio. Le prime piante di kiwi.

Fu uno dei primi in Italia a coltivarle. Ai tempi i kiwi erano considerati frutti esotici e in pochi li conoscevano. A lui le cose nuove piacevano e quindi era riuscito ad averne qualche pianta, a riprodurne altre e a coltivarne un bel campetto. I frutti rari e ricercatissimi li vendeva a un fruttivendolo di Treviso. Glieli pagavano al pezzo, 300 lire cadauno, uno sproposito. Avrebbe potuto guadagnarci una fortuna, la domanda batteva l’offerta cento a zero ed erano davvero tanti quelli disposti a riempirgli le tasche di soldi facili facili. Quei frutti in quegli anni arricchirono diversi contadini qui nel nord-est. Ma non mio zio Tiglio. Si accontentava di quel poco che il suo campetto produceva, non volle mai riempire altri campi di piante e a chi gli chiedeva come mai, lui rispondeva che quel che aveva gli bastava e che bisognava lasciar spazio anche agli altri. L’essenziale era ben visibile ai suoi occhi.

Era un uomo ricco dentro, con tanto da dare. Ma non si è mai sposato, che delle donne ha sempre avuto timore. Non si sentiva all’altezza, balbettava, si agitava perchè nella sua testa ogni donna era un’enorme Moby Dick trionfante nel proprio oceano. E lui nemmeno sapeva pescare. A volte me lo immagino così, alto e secco, non tanto bello e introverso. E ingenuo, dotato di quella purezza che solo i timidi e gli insicuri hanno. Un uomo nobile e fragile.

Che in vita sua ha trovato rifugio in poche, semplici cose. La natura, la curiosità, la pittura e i suoi occhi. Attraverso i quali si nutriva. Senza mai tenersi nulla solo per sè.

Rapiva tutti i paesaggi del suo quotidiano. Anse di fiumi che cullavano le acque, corti di case contadine traboccanti di abitudini, campi arati abbracciati da alberi minuziosamente dipinti. Tutta la bellezza di ciò che diamo per scontato, senza mai guardare davvero. Povere, semplici cose che nei suoi quadri erano immagini preziose di una realtà che ci strugge di nostalgia e serenità.

Volevo bene a mio zio, anche se non ci siamo mai frequentati troppo. Lui era un solitario e io anche. Quando ero in viaggio gli scrivevo delle cartoline raccontandogli cosa facevo e cosa vedevo. So che a lui piacevano tanto, che se le leggeva e rileggeva dopo aver cercato sull’atlante il posto esatto da cui gliele avevo spedite. A volte erano posti davvero lontani e magnifici. E io amavo scrivergli perchè immaginavo il suo piccolo mondo di abitudini scosso dall’immagine di un paesaggio e di pensieri fino a quel momento sconosciuti. A lui che piacevano tanto le cose nuove e che mai si stancava di imparare.

Se n’è andato a 92 anni e fino a 90 anni ha guidato la sua vecchia Fiat. Se n’è andato così, da solo e senza far rumore, con la stessa semplicità e umiltà con cui ha vissuto la sua vita. Di Tiglio.

TIGLIOultima modifica: 2013-12-26T13:43:08+01:00da betterbequiet
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