IL RITORNO DELLA VIAGGIATRICE SOLITARIA. MA NON TROPPO.

05 MAGGIO

 C’è un momento prima di ogni partenza in cui non cerchi che un motivo per non partire. Una scusa abbastanza buona da permetterti di rimanere nella tua tana comoda senza perder la faccia. E’ il momento in cui realizzi che stai per lasciarti alle spalle ogni tua abitudine, ogni tua sicurezza, gli agi, le serate con i tuoi amici. Se di amici ancora ne hai.

Ecco, sei lì che scegli, che scarichi e impacchetti, che scendi in soggiorno per prendere un qualcosa e dimenticarti poi cosa, una volta sceso. Dire, dare, fare, pensare. Il tempo che scorre troppo veloce. Milioni di impulsi nervosi che ti ubriacano la testa, tu che vorresti fermarti, inspirare a fondo ed espirando mandare tutto il mondo a fanculo. Ma sai che non puoi.

E’ questo il momento in cui ti passa la voglia di partire, in cui non avresti che voglia di rannicchiarti su te stesso, in posizione fetale, e rimanere lì, protetto da ogni dovere e da ogni preoccupazione. Rimango a casa, rimango con le persone che mi vogliono bene, rimango nei posti che conosco da sempre, rimango con il mio frigo, la mia auto e il mio armadio pieno.

Invece partirai, sai che devi perché ormai ci sei, hai già svolto gran parte del lavoro di organizzazione, ti sei già congedato dai vari conoscenti. Hai scelto di intraprendere questo viaggio e sai che è stata una scelta giusta, sai che ti farà bene vivere quest’avventura. Ma più di ogni altra cosa, sai che sarai contento e soddisfatto di quanto hai fatto, e che tutto ciò che vivrai ti arricchirà e ti farà sentire meglio. Un rimpianto in meno, in questa esistenza di tante cose non fatte.

Eppure non riesci a pensare a tutte le cose belle che vivrai, pensi solo a ciò che lasci. Ma non troppo. Perché se ci riflettessi davvero ti accorgeresti che, famiglia a parte,  non stai voltando le spalle a chissà-che-cosa. Perdere. Cos’hai da perdere? Non ci ho mai pensato e tutto sommato  non ho intenzione di farlo ora.

Passato, presente. E poi c’è il futuro, quello di cui hai solo dati: arrivare in tempo in aereoporto, pagare un supplemento per imbarcare la bici, inviare gli ultimi sms prima di salire in aereo, ritirare il tuo bagaglio a Siviglia, trasferirsi in centro in qualche modo, scovare il tuo alberghetto tra le stradine labirintiche del centro città. Tutto il resto è il tutto e il nulla, qualcosa che costruirai giorno per giorno, strada facendo. Un’incognita che non vuoi nemmeno provare a immaginarti.

Come si fa a partire in queste condizioni? Beh, facile: testa bassa, pugni stretti, istinto e fatalismo. E via.

 

Volo da Venezia a Siviglia accanto a una coppia il cui moccioso se la fa addosso ogni mezz’ora infettando così la poca aria disponibile. Scarico il bagaglio, che arriva intatto e ben disposto, monto la bicicletta e vado all’ufficio informazioni. Scopro che non posso caricare il mio mezzo in autobus, così sono costretta a pedalarmela dall’aereoporto al centro città. Tre ore di madonne, cartine e tangenziali più tardi arrivo finalmente alla pension Bienvenido. Bienvenido un cazzo, penso tra me e me, dopo l’odissea che mi son dovuta beccare. Pranzo alle 17 con un frappuccino taglia L da Starbucks, ceno alle 21 in un posto carino di cui non mi ricordo il nome, trascorro mezz’ora incantata a rimirare la cattedrale di Siviglia e il cielo bluchiaro-blumedio-bluintenso-bluscuro che le fa da sfondo. Il corpo di ballo delle rondini che ci danzano attorno. Julie Doiron nelle orecchie, una Cerveza Media nelle vene, una Stanchezza Intensa che dondola aggrappata alle mie ossa. Mezzo Sorriso in faccia al pensiero di ciò che mi aspetta domani e Sta Frase che mi circola in testa: non pensare a ciò che perdi ma a ciò che guadagni.

 

06 MAGGIO

La notte non dormo perché il solito gruppo di connazionali tiene alta la bandiera dell’intramontabile “Italiani zempre rumore”. Mi alzo alle 8 sbattendo più volte possibile la porta per ricambiare il favore a quegli stronzi che mi hanno tenuta sveglia la notte prima. Ci metto una vita per risistemare il mio bagaglio e un’altra vita per bere il caffè latte ustionante che ho preso da Starbucks. Uno studio approssimativo del percorso e partenza. Sono le 10 spaccate e io sto bene. Trovare la strada giusta è inaspettatamente facile e una volta attraversato il ponte Isabel trovo subito le freccie gialle che tanto benedirò lungo la strada per Santiago. Arrivo veloce a Camas, entusiasta, troppo entusiasta perché il mio entusiasmo possa durare. Infatti a Camas perdo di vista le mie care frecce, chiedo indicazioni per Santiaponce ma il mio spagnolo incapace di intendere e volere non mi permette di capire bene le indicazioni datemi. Così finisco in autostrada. Una bici e una cretina che la guida perse tra le mille corsie di asfalto veloce, le auto e i camion che mi maledicono in duemila modi diversi. Per fortuna riesco a trovare subito un’uscita e pure la giusta via. Arrivo a Santiaponce, che mi pare un paesino deserto popolato da gente che manco ti degna di uno sguardo e pedalo via veloce verso Guillena. Finalmente riesco a lasciare le strade asfaltate e a correre lungo un sentiero sterrato lungo e assolato. La vera via del pellegrino. E in quel momento mi sento davvero in viaggio, da sola nel nulla, le mie forze e la mia testa. E sono felice, davvero felice perché mi pare di essere tornata indietro nel tempo al mese durante il quale ho percorso a piedi il cammino francese. Quasi cinque anni fa. Ma le farfalle nel mio stomaco volano per poco. Il tempo di ritrovarmi sulla strada desertica che porta a Castillblanco, un inferno di tratti impraticabili in bicicletta, di salite senza discese, di caldo massacrante che riesce a mandarmi in frantumi perché mi trova stanca e senz’acqua. L’aria odora di incenso e io ormai comincio ad avere le visioni. Ma non cedo e proseguo fino alla meta, anche se gli ultimi 7 km sono talmente cotta e disidratata che non capisco più niente e prego solo dio che non mi faccia smarrire la via perché se ciò succedesse sarei veramente nella merda. E dio, anche stavolta, me la dà buona.

Approdo al primo bar di paese e ordino infinite cose da bere. Ordino anche un panino che mangio al rallentatore a causa della troppa stanchezza. Ma so che devo sforzarmi perché sto mangiando troppo poco e non va bene. Seduta ad un tavolino in strada osservo il campanile su cui ha nidificato un’intera colonia di cicogne. Sono cosi belle, e volano così lente, sembrano così in pace col mondo. Come in pace mi sento pur io, ora che ho trovato un letto in questo rifugio, dopo aver fatto una doccia e aver steso al sole il bucato. Ora che ho trovato qualcuno con cui parlare e magari cenare stasera.  Pulisco la catena della bici, mi stendo una mezz’ora, magari un po’ di spesa, un boccone, una birra chissà. Infine un meritato riposo. E dormirò serena perché so di meritarmelo davvero.

 

07 MAGGIO

Nella camerata in cui trascorro la notte i primi pellegrini si alzano alle 5 e affrontano così i primi chilometri di cammino, nel buio, lungo le strade deserte, immersi nel silenzio. Io mi alzo alle 7 e mezza ma non riesco a partire prima delle 9. Compro la colazione, il vecchio caro panino con il miele masticato veloce nella piazza del paese. Acqua, un’occhiata al percorso e via. E poi subito stop, perché la mia bicicletta fa rumori strani e inquietanti. Mi fermo e dopo poco risalgo all’origine del problema. Mi si è rotto un raggio della ruota posteriore, olè. Penso al percorso accidentato di ieri, alle tante buche, al culo che il mio povero mezzo si è fatto e così mi tornano i conti. Troppe sollecitazioni, d’ora in poi dovrò evitare i tratti così malmessi.

Siccome in paese non c’è un negozio di biciclette manco a pagarlo oro, sistemo il raggio penzolante alla meno peggio e parto. Mi aspettano 30 km di sali-et-scendi, alcuni dei quali mi fanno sudare non poco. Ma mi sento forte e dopo tutto quello che ho passato in australia e in nuova zelanda non temo più nulla. Auricolari alle orecchie, Ac Newman nell’ipod, il cielo senza nuvole: rock ‘n roll!

Ad Almaden mi fermo qualche ora ad aspettare che questo caldo atroce si ammorbidisca e mi permetta di continuare la mia strada senza rischiare il collasso. Mi fa male la gola ma non mi mancano le forze, sono tentata di fermarmi e trascorrere qui la notte in compagnia dei pellegrini che ho conosciuto ieri ma  so che non devo, perché questa è la via per santiago: un essere disposti  a ricevere e un essere disposti a lasciare. Anche le cose belle. E così saluto tutti coloro che mi hanno strappato tanti sorrisi il giorno prima. Lo svizzero Ulli, che sembra uscito da una fiaba e che mi abbraccia ogni qualvolta gli capito a tiro, lo spagnolo Ele che mi racconta un po’ la storia di venezia e che si inventa i più svariati argomenti per trattenermi a parlare. L’australiano Allister che è timido e riservato ma che s’illumina non appena comincio a parlargli di biciclette e cicloturismo. Loro e tutte le persone con cui ho scambiato un saluto, un sorriso, quattro chiacchere multietniche. Li lascio al loro cammino mentre io proseguo per il mio portando con me solo il loro ricordo e le sensazioni belle che grazie a loro ho provato.

Per arrivare a El Real mi basta seguire una stradina priva di traffico che scodinzola tra infinite distese di ulivi; ci arrivo in un’ora, una mini sosta in paese e via, ritorno ai sentieri sterrati, per la gioia della mia bicicletta. Fa un caldo bestia e fatico a manetta per evitare sassi appuntiti e buche smembra-ruote. Così, per dieci km che sembrano non finire mai. Quando finalmente raggiungo la strada asfaltata sono sollevata, il più è fatto, mi dico. E invece no. Mi aspettano 11 km di sola salita e l’ultimo tratto poi mi prosciuga di tutte le forze che mi erano rimaste. E’ qui che incrocio un paio di cicloturisti molto fai-da-te. Camminano trainando le bici, sembrano cosi sfatti che io a confronto sembro un fiorellino. Li sorpasso e proseguo, io dalla sella non scenderò mai, questa salita non può vincermi cosi. Mi sento una bestiaccia, con la gola che mi fa un male cane, la pelle bruciata, il sudore che colandomi negli occhi mi accieca. Il culo che mi fa un male cane dopo cinque ore che sto su sta sella. E io che non cedo, le mie gambe che girano e il mio cuore che batte deciso tra le costole. Sono una bestiaccia.

A Monesterio non c’è un albergue per pellegrini, così devo cercarmi un hostal da quattro soldi in paese. Ne becco uno di carino e super economico e quando finalmente atterro sul mio  letto, sudata e stanca, mi rendo conto che non ho più un singolo grammo di forza. Bestiaccia sì ma non troppo…

 

08 MAGGIO

Dormo sonni tranquilli e alle 8 sono già in strada. Preferisco l’asfalto al sentiero perché il traffico è pari a zero e perché voglio arrivare il prima possibile a Zafra. Un po’ di salite, un bel po’ di discese, un sacco di indicazioni di passanti per farmi ritrovare la via. Arrivo nella bellissima Zafra tre ore più tardi, con la  gola che ormai sembra un forno nucleare e il naso che mi cola senza tregua. Ma qua trovo gente cordialissima che rende semplice ogni cosa: farmi aggiustare la bici in un qualche negozio, trovare uno spray che plachi un po’ l’inferno che mi brucia in gola, trovare la strada. Ottengo tutto e subito, in una mezz’ora mi sistemano il mezzo e nel frattempo vado a farmi un giretto per le viuzze squisitissime di questa cittadina. Entro in una “dulceria” e faccio man bassa di panini al latte e torte varie. Entro in una farmacia, spiego il mio problema e mi viene data  una cosa efficacissima, a base di clorhexidrina, che con una spruzzata mi anestetizza completamente la parte dolorante. Compro acqua, entro a visitare una chiesa silenziosa e spiritualissima, mi riposo all’ombra nel parco e quindi torno nel negozio di biciclette. Il meccanico ha fatto un eccellente lavoro e la titolare, oltre a farmi pagare soltanto 6 euro per la riparazione, mi regala pure una borraccia. Io sono quasi commossa, recito muchas gracias come un rosario e me ne vado da questo posto con un certo rammarico. Perché a rendere bella una città non bastano i monumenti e l’architettura. No, a rendere bella una città sono i  suoi abitanti, così come a rendere veramente bello un viaggio non sono le cose che vedi ma la gente che incontri. E Zafra è una di quelle località capaci di rendere un viaggio davvero carino e piacevole, per questo la lascio con dispiacere.

Per arrivare a Los Santos devo beccarmi una salita che a quest’ora, le 13, diventa un calvario. Poi però il sentiero si fa meno impervio, il paesaggio s’inverdisce di distese infinite di ulivi e vigneti. Ogni tanto incrocio qualche contadino che mi saluta dal suo trattore e qualche lepre che mi saltella a fianco, per nulla intimorita. Evidentemente non sa con chi ha a che fare…

Arrivo a Villafranca, il cielo è grigio e la mia schiena comincia a risentire di altre  5 ore di sella. Sono le 15 e tutto è chiuso e non so dove andare a sbattere la testa per trovare un posto in cui dormire. E poi magicamente un barista se ne esce di corsa dal bar e mi rincorre per chiedermi se ho bisogno di qualcosa. Mi faccio indicare una qualche pension economica e cinque minuti più tardi sono ospite della signora Elena, che mi affitta una stanza della sua casa per una miseria.

La sera la stanchezza mi aggredisce come uno tsunami. Spazza via quel che restava delle mie forze e della mia lucidità, mi trasforma da un essere animale a uno vegetale.

Mangio un panino e bevo la solita birretta in un bar del centro, servita da una cameriera scazzata e ben poco gentile. Pazienza. Mi chiedo, se questa donna si rendesse conto della fatica che ho fatto oggi, della fatica che è viaggiare così, mi tratterebbe meglio?

Navigo un po’ per le vie di questo paese, senza una meta, mi sento così randagia. Due bei segni scuri sotto gli occhi, il naso e le braccia bruciati, i vestiti fin troppo casual. Non devo essere un gran bel vedere. Sembro esattamente come mi sento: sfinita e rincoglionita. Ho solo sonno e voglia di un po’ di coccole e sto qua con gli occhi aperti a pensare a non so nemmeno io cosa, incapace di fare qualsiasi altra cosa. Di dormire, di lavarmi i denti, di leggere, di riordinare il bagaglio. Nulla. Sto qua immobile a fissare il vuoto e a dirmi che dovrei fare questo e quello, senza mai riuscire a decidermi di cominciare.

Penso a domani, chissà cosa proverò.

 

09 MAGGIO

Alzarsi la mattina alle 6 e mezza con i muscoli che si aggrappano con tutte le forze al materasso e gli occhi che non vogliono saperne di schiudersi manco a pagarli. Maledetti. Mangio un panino su cui sono stati spalmati due chili di burro e altrettanti di marmellata, quindi mi avvio verso i sentieri sterrati persi tra vigneti e ulivi,  che qui sono la vegetazione predominante. E nonostante la stanchezza, il mal di gola infinito, il moccio al naso, la solitudine, io mi sento bene, mi sento in pace. E a pensarci bene mi accorgo che non mi sentivo così bene da tanto e che per provare queste sensazioni ho sempre avuto bisogno di questo: natura, distanza, spazio, mancanza di cognizione temporale. E mi rendo anche conto che per ritrovarmi sono dovuta andare in posti in cui non potevo nascondermi, spazi aperti dove la vista si perde, spazi privi di muri, angoli e porte. Distese in cui nulla può sfuggire alla vista.

Arrivo a Merida, dopo tre ore di polvere e starnuti, e sarei curiosa di visitare questa bella città ma non faccio che perdermi per le vie del centro e maledire i grossi centri urbani. Mi assale un forte richiamo della foresta e così scappo via, a nord, into the wild. Per trovare la strada giusta devo sudare sette camicie ma quando finalmente la trovo sospiro felice e mi godo i 17 km che mi separano da Aljucen concedendomi un’oretta di musica e aria fresca.

Oggi è una giornata di tregua. Il sole è rimasto ad oziare dietro una cortina di nubi e le salite si sono stiracchiate per non farmi sudare troppo. Arrivo alla mia piccola meta prima delle 14, trovo un bel rifugio, qualcuno con cui chiaccherare e mangiare un boccone, tanta tranquillità. E poi conosco un altro grammo di mondo. Silvia, un’insegnante tedesca con i piedi sfasciati dalle vesciche che viaggia in infradito e legge libri francesi. Antonio detto Nino, un sessantenne torinese che ha fatto il geometra per quarant’anni e ora vorrebbe accumulare ricordi succosi da raccontare poi ai nipotini. Pasquale detto Gianni, un settantenne siculo-svizzero che prima della pensione ci cimentava nel soccorso  alpino e che dopo la pensione ha cominciato a cimentarsi nel vagabondaggio d’alta classe. Russa come un treno a carbone tutta la notte e mi fa benedire caldamente i miei tappi alle orecchie. E poi c’è un viticoltore della galizia che mi parla di albarinho (un vitigno locale) per una mezz’ora e Raffaella, una trans di origini pugliesi che vive in Francia. Il fisico tozzo, la pancia tonda, le labbra carnose e qualche pelo sul petto prosperoso. Non la smette più di parlare e parlare e lanciare occhiolini e sorrisi e io, in qualche modo, sono contenta per lei perché qua nessuno la guarda con occhi straniti. A un certo punto mi sento piccola piccola e protetta e sto così bene che mi vien voglia di fermare il tempo e trascorrere questo giorno per tanto tempo ancora. Ma il cammino è il cammino e in quanto tale va continuato.

 

10 MAGGIO

Oggi si marcia su strada, noiosa e scivolosa strada, pesante per la mente e leggera per le gambe. Ho nausea delle città, delle domeniche dai negozi chiusi e dei panini di qualsiasi razza e cultura. Pedalo veloce, non ho una bella giornata e spendo la notte in un rifugio che credevo molto più carino e accogliente. Mai fidarsi delle guide. Lo trovo pure straripante di pellegrini, alcuni dei quali hanno la capacità di amareggiarmi con un saluto non ricambiato, il non concedermi nemmeno uno sguardo. I ciclisti non sono ben visti dai camminanti, si crede che chi pedala faccia un decimo della fatica di chi cammina e che quindi non sia degno di rispetto o di confidenza. Certo, il vero pellegrino a santiago ci arriva a piedi, perché a percorrere la via così lentamente, a sentire la terra sotto ai piedi, è tutt’altra cosa. E’ molto più intenso. In più si gode del vantaggio di poter socializzare e di viaggiare in compagnia, magari ritrovando di tappa in tappa le stesse persone conosciute all’inizio. La bicicletta è molto più solitaria e non permette che brevi scambi di umanità, qualche ora in compagnia, se si è fortunati, poi di nuovo il paesaggio e solo quello. In compenso è più veloce e risparmia le articolazioni. Ma è pur sempre faticosissima e a volte snervante, quando si percorrono sentieri dissestati. Quindi… chi fatica di più? Ciclisti o camminanti? Beh, la verità è che fatica di più chi è triste.

11 MAGGIO

Qualcuno nella mia infernalissima camerata stanotte ha lottato contro una tosse rabbiosa, con talmente tanta determinazione da vincere il primo premio come migliore Scassamaroni Canchero Maledetto e Ti Tolpisse un Turbinio di Malattie Simultaneamente della via. Non ho chiuso occhio e mi son pure svegliata che fuori già precipitavano le prime goccie di pioggia. Dopo 20 km la pioggia diventa una tormenta, mi fermo ad aspettare che il peggio passi ma dopo poco mi sento vigliacca (come  certi vini rossi) e allora mi tuffo e via. Vamos ad annegar… Arrivata a Canaveral mi fermo ad una fermata di bus per riprendere fiato e far rifornimento di carboidrati e zuccheri. E mentre sto per gettare la carta della terza Madeleine al miele compare Rafael, un ciclista di Siviglia che ho conosciuto il giorno prima e che va nella mia stessa direzione. Perché non proseguire insieme? Eh, perché no. Rivamos. Piove e Rafael si fa le salite come se stesse partecipando a una gara. Mi sdreno per stargli dietro ma non cedo e sono sorpresa a un certo punto di quanto in verità sia forte e allenata. Non mi ferma nessuno, cazzo. Andiamo via sparati, senza soste e nella pioggia sempre più fitta. Sbagliamo strada e finiamo pure col farci 15 km in più. Alla fine della giornata abbiamo fatto 87 km, 800m di salita, 5 ore di fatiche a tutta velocità e assorbito 592 litri di acqua. Le madonne non si contano, Rafael non me lo vuol dire o se anche volesse il mio spagnolo è talmente pessimo e fantozziano che non lo capirei comunque. Quando finalmente arriviamo a Carcaboso, filiamo prima in doccia(non assieme) e poi subito a mangiare(assieme). Entrambi scorriamo il menù del giorno in cerca dei piatti più sostanziosi e calorici. Mangiamo come se non mangiassimo da vent’anni. Io sono tentata di mangiare con le mani per introdurre cibo il più velocemente possibile ma mi trattengo. Usciamo dal ristorante vacillanti e con la panza rotondissima e soddisfatta. Una siesta e poi trovo miracolasamente una biblioteca che mi permette di connettermi ad internet. La pena da pagare è il dover trascorrere un’ora in balia di una decina di mocciosi urlanti e incontrollabili. La bibliotecaria per zittirli urla ancora più di loro; sembra di stare in un manicomio. Maledetti mocciosi. Non li prendo  a calci solo perché per oggi ho sfruttato fin troppo le mie energie…

 

 

IL RITORNO DELLA VIAGGIATRICE SOLITARIA. MA NON TROPPO.ultima modifica: 2009-05-11T17:33:00+02:00da betterbequiet
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