SUPER HEAT, SUPER TURIST

 

30 MAGGIO


Le 5. Mentre sono seduta in questa stanza vuota a far colazione osservo il solito scarafaggio nero che se la svigna furtivo lontano dalla luce. Non so se ci avete mai fatto caso ma gli scarafaggi si muovono sempre accostati alla pareti, ai margini di una stanza. Gli spazi aperti li disorientano e li impauriscono. Così come la luce. Insomma, si comportano come noi. Cercano di evitare i pericoli procedendo spalle al muro, con le chiappe parate da qualcosa di solido. Nel buio si muovono con disinvoltura e sfrontatezza, mentre alla luce del sole diventano timidi e schivi e vanno subito a rintanarsi in un posto in cui si sentono al sicuro. Penso a Kafka e mi chiedo se la sua sia stata una vera metamorfosi oppure una semplice presa di coscienza sulla propria condizione sociale. E morale.

Oggi ho in programma una giornataccia di 80 faticosissimi chilometri. Mi sveglio con lo stomaco in alto mare, una stanchezza che non ha uguali ma anche con una posività che tutti sti problemucci li prende a calci in culo.

Parto in discesa ma non faccio nemmeno in tempo a rallegrarmene che già iniziano gli scazzi. Mi sono persa. La mia cartina non è abbastanza dettagliata e di indicazioni stradali qua figuriamoci. Dopo aver rotto le palle a numerosi contadini orto-zappanti dall’incomprensibile parlata, riesco a ritrovare la mia amata N-201 e la seguo con costanza e abilità per chilometri e chilometri di salite e di discese. Una salita in particolare mi tiene compagnia a lungo. Due ore di gambe che girano veloci per muovere lentamente tutto il mio carico. Una faticaccia. Ma anche una meraviglia. Finalmente una strada poco trafficata, un po’ di tranquillità, aria salubre e cordiale. Che me ne frega della fatica se in cambio posso godermi un po’ di serenità. E di felicità, anche. Quando vedo che dall’altro lato della montagna la mia strada procede in discesa mi viene l’acquolina in bocca. Tipo un povero assetato perso nel deserto che all’improvviso avvista un’oasi. Tipo che quell’oasi non è un miraggio. Ecco. Mi godo quasi dieci minuti di assoluta discesa. Easy down the road, mi viene in mente la copertina di questo album di Bonnie Prince Billy, la foto di un campo di erba verde, alta e soffice, che ricopre una collina, e in mezzo l’impronta del passaggio di un’auto che scende verso la pianura. Easy down the road. Le mie gambe sospirano, i polmoni si riempiono di vento fresco. Non credo di essermi mai meritata così tanto una discesa. O forse si, però in questo momento mi piace pensare che sia così, che questa sia la discesa più meritata della mia esistenza.

E POI E’ LA POLVERE. Questa è una zona di estrazione del granito e tutto qui è fatto di granito. Ovunque lungo la strada passo attraverso cave dove spaccano la montagna e ne lavorano i pezzi. Nuvole di polvere bianca aleggiano sopra la carreggiata come una nebbia e ogni volta che ci finisco dentro trattengo il respiro e socchiudo gli occhi. Ma non basta perchè la polvere mi si infila comunque tra le ciglia, si insinua tra le palpebre, tortura iridi e pupille. Maledico quei poveracci che stanno lavorando questa pietra ma poi ripensandoci mi rimangio subito le maledizioni. Li osservo mentre sudano sotto il sole, sembrano lavoratori del terzo mondo, magri e dai volti segnati. Io sono infastidita per aver respirato questa polvere meno di cinque minuti. Cinque miseri minuti. Loro trascorrono le giornate in questa nebbia asfissiante. Che diritto ho di lamentarmi?

E POI E’ IL SOLE. A mezzogiorno sono ancora sulle mia bicicletta ad affrontare salite e traffico. Il caldo mi uccide. Mi fermo per bagnarmi i capelli in continuazione, compro acqua fredda in ogni bar che trovo lungo la strada. Bevo, prendo una bustina di sali minerali. Mi sento affaticata e strana ma non riesco a fermarmi, sento che potrei continuare così per giorni. Un’insolazione. Me ne rendo conto quando guardo il tabellone luminoso di una farmacia. Data. Ora. Temperatura. Segna 38 gradi. Devo assolutamente fermarmi all’ombra e riposare, mi dico, con quel poco di lucidità che mi è rimasta. Mi fermo a Barcelos, una cittadina non male, attrezzata con un bel parco alberato. Parcheggio qui. Consulto mappe, guide ed oroscopi. Mancano 15-16 km alla mia destinazione, un’ora e qualcosa di fatiche. Ce la posso fare, penso ma poi alla fine cambio idea perchè mi rendo conto che in verità non sto per niente bene e che sarebbe una pazzia continuare sotto il sole in ste condizioni. Allora mi cerco un albergo e mi butto sotto l’acqua fredda. Quando esco dalla doccia mi accorgo che fino a un quarto d’ora prima ero via di testa, che non riuscivo a ragionare e che se non mi fossi fermata avrei rischiato grosso. Le insolazioni sono molto pericolose perchè quando colpiscono lo fanno in modo meschino, e quando danno segni evidenti del loro attacco può anche essere troppo tardi.

Curiosità. Barcelos è la città del Gallo, il simbolo del Portogallo. La leggenda narra (o insomma, credo narri… ho tradotto la spiegazione dal portoghese, quindi non so quanto possa essere attendibile) che un giorno un pellegrino che passava per questa simpatica cittadina fosse stato ingiustamente accusato di crimini orribili successi proprio durante il periodo in cui sto povero cristo aveva sostato nella zona. Il pellegrino fu condannato alla forca ma prima che la sentenza fosse eseguita chiese, come ultimo desiderio, che gli venisse servito un buon pranzo. Mentre aspettava che gli si cucinasse l’ultimo pasto, un galletto al forno, proclamò nuovamente la sua innocenza di fronte al giudice(o chiunque altro fosse) che l’aveva condannato. Il giudice, sogghignando, gli rispose allora: “Crederò alla tua innocenza nel momento in cui questo galletto arrosto canterà”. E così fu. Il galletto, una volta uscito dal forno e posto su un piatto, cantò. E salvò così la pellaccia del povero pellegrino che in cambio, credo, gli eresse un monumento o qualcosa del genere. Fine della leggenda.


31 MAGGIO


Dritta, spedita a Porto. Ho deciso che mi fermerò in questa città un paio di giorni, per darmi il tempo di acclimatarmi. Lo sbalzo termico tra Santiago e il Portogallo mi ha massacrata. In 2 giorni sono passata da una temperatura media giornaliera di 10-16 gradi, a una di 30-40 gradi. Senza parlare poi del fatto che, per evitare il caldo, mi tocca alzarmi alle 4 e mezza del mattino ma che comunque prima delle 23 non riesco mai ad addormentarmi. Il risultato è che mi sento offuscata e senza speranze. Necessito di riposo e tranquillità. E di svago anche. Basta pensare sempre e solo a strade e profili altimetrici, che cazzo di viaggio è questo? Un tour ciclistico forzato? Ma vaffanculo…

Rallento, ho deciso. Mi concedo più spazi e più agi. Perchè altrimenti questo viaggio rischia di trasformarsi in un’ottusa tortura. Ammazzarsi di fatica tutto il giorno, arrivare stremati e fuori testa a destinazione, senza riuscire a pensare ad altro se non al percorso del giorno seguente. Niente interazione con i luoghi che si attraversano, sopressione della curiosità, niente creatività. Non va mica bene, in cambio dei miei sforzi questo viaggio deve pur darmi qualcosa di bello… O no?

Il Portogallo mi piace, paesaggisticamente e, in parte, culturalmente parlando. Però non mi piacciono i suoi abitanti. Trovo gli uomini assurdamente misogini e le donne incredibilmente bigotte. Parlo dal mio particolarissimo punto di vista, ovviamente. C’è chi ha avuto un’impressione contraria alla mia, ma dalla mia posizione di viaggiatrice-ciclista-solitaria-femmina mi sento di dire che i portoghesi a me non piacciono. E ora vi spiego perchè. Quando passo pedalando la gente mi fissa come fossi un’aliena. Gli uomini poi mi guardano con gli occhi sbarrati, non dico incattiviti ma quasi, come se mi rimproverassero la mia posizione. Nessuno mi saluta, nemmeno quando provo a sorridere e a proferire un umile “bom dia”. Nulla. Mi fissano e basta. E questo quando mi va bene. Perchè diverse volte mi è successo che qualcuno al mio avvicinarmi sputasse con disprezzo per terra. Certo, qua sputare per terra è un’abitudine comune ai più. E certo, qua nessuna donna viaggia da sola. Però io non la scuso comunque sta gente e il loro comportamento lo trovo maleducato e mi fa pure incazzare. Ieri ho mandato a fare in culo l’ennesimo sputatore, sparandogli un bel Fuck you(perchè vaffanculo in portoghese non so come si dica) tra i denti. Però non va bene, rischio grane. D’altronde voi cosa fareste al posto mio? Io non ce la faccio proprio a non incazzarmi, per quanto equilibrata possa sentirmi dopo tutti i chilometri che mi son fatta…


A Porto trovo una stanza con bagno in un bel albergo. Non faccio nemmeno in tempo a mettere piede nella mia nuova casetta che subito una donna seduta nella hall mi chiede di dove sono. Per qualche strano motivo la mia nazionalità desta un’incredibile curiosità tra le persone che incrocio mentre sono in viaggio. Sono italiana, come al solito. Elisabeth invece è olandese, indossa un abito rosso bordeaux, semplice ma al contempo elegante, capelli sciolti, ordinati nella loro casualità, una collana di piccole perle. Sfoglia giornali senza leggerli. E si lamenta per il caldo e per la stanza che le hanno assegnato. Parliamo un po’, di città e di alberghi, più che altro. Mi rifila una lunga serie di nomi di hotel e di suggerimenti in generale. Io prendo nota, questa donna mi ispira fiducia. E’ schiva e riservata ma per niente timida. Quando le confesso che una delle cose che un po’ mi pesano del viaggiare da sola è il cenare in un tavolo tutto per me al ristorante, lei non fa una piega. Ci è abituata, non le cambia nulla pasteggiare da sola o in compagnia e si vede. Trasuda sicurezza e autocontrollo da tutti i pori. Mi chiedo se anche io un giorno riuscirò ad abituarmi ad entrare in un ristorante da sola, senza farmi paranoie. Onestamente mi pare di essere sulla buona strada ma. Con qualche ma di riserva.

Saluto Elisabeth che oggi prende un autobus per Santiago e prosegue così il suo viaggio dal Marocco verso il nord. Quindi chiudo la mia guida e apro la porta della mia nuova stanza. Faccio tutto con calma e mi obbligo a non programmare nulla, a non trascorrere la giornata girando da una parte all’altra della città per vedere tutto. Ho bisogno di riposo, di ipo-attività. Quindi il primo giorno non faccio assolutamente nulla, se non mangiare e bere.

Il secondo giorno l’ho invece soprannominato il “super-lazy-turist day”. Yeah. Mi alzo alle otto, faccio una colazione mondiale in hotel, una doccia, cazzeggiamenti vari, quindi esco. Cammino lungo il percorso suggerito dalla mia lonely planet, scatto foto alle vie e ai monumenti più carini. Ogni tanto appunto sulla mia moleskine qualche impressione, tipo: a) per conoscere davvero una strada bisognerebbe percorrerla prima in un verso e poi nel verso opposto. L’impressione che quella strada ci può fare cambia a seconda del punto da cui la osserviamo. b) molto bella la stazione di Sao Bento. Dentro le pareti sono tapezzate da Azulejos(piastrelle solitamente decorate con disegni azzurri), fuori i binari si srotolano come una tela, incorniciati da un paesaggio di palazzi decadenti in stile La Habana. c) la rua dos Flores assomiglia alla zona di Monmartre, provincia di Parigi.

Chiusa la mia moleskine attraverso il ponte D. Luis I e sono a Vila Nova de Gaia, la patria del vino Porto. Mi sfrego le mani e inizio il mio super turistico giro delle cantine. Visite guidate e degustazioni tutte uguali. Mi rilasso, scambio impressioni e bevo. Chi se ne frega. Quando mi vien fame mi fermo in una super turistica piazzetta, scelgo un tavolino al sole, fronte-fiume Douro, ordino filetto di pesce fritto con patatine e insalata. Una birra media. Il musicante di turno che viene a mendicare monetine. Pago, lascio un euro di mancia, vado in bagno a fare pipì. Super turist. Mi becco qualche altra cantina, passeggio lentissimamente lungo le stradine pendenti e quando sono stanca compro un biglietto per farmi un giretto in barca lungo il fiume. Occhiali da sole, metto un’altra maglietta per difendermi dal vento forte, mi godo il paesaggio pensando ad altro. Super turist.

Riattraverso il ponte, giro per le stradine della costosa zona del Ribeira, quindi mi fermo a un caffè affollato per bermi una spremuta d’arancio con ghiaccio e assaggiare la famosa pasteìs de nata, una sorta di creme brulee servita in una coppetta di pasta sfoglia. Eccellente. Osservo un cane che passa trotterellante con in bocca un sacchetto trasparente di ritagli di carne. A un certo punto si ferma, appoggia il suo sacchetto a terra, si tuffa nel fiume, quindi risale, si scrolla di dosso l’acqua, si fa una pisciatina, riprende il suo sacchetto della spesa e riparte. Mi rallegra da morire osservarlo.

Sulla via verso casa sosto in un internet point, bevo una coca cola zero e dico qualcosa di cretino in inglese alla cassiera quando pago la mia net-consumazione.

Varco la soglia del mio albergo, dico un’altra cosa cretina in inglese pure alla taciturna receptionist, mi faccio dare la chiave della mia stanza e per salire prendo l’ascensore.

Super-mega-lazy-turist. Uhh…

SUPER HEAT, SUPER TURISTultima modifica: 2009-06-02T00:04:00+02:00da betterbequiet
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