Go to San Francisco!

 

Aeroporto di Venezia. Again and again. Sembra che le partenze siano fatte con lo stampo: la sveglia ci scaccia a calci in culo dal mondo dei sogni. Abbiamo dormito troppo poco. Prima di aprire gli occhi ci crogioliamo nel pensiero di rimanere a letto al calduccio fregandocene del viaggio. Ma poi, per un non precisato motivo, ci alziamo e ci infiliamo in doccia. L’acqua calda finisce troppo presto e a toglierci gli ultimi grumi di shampo ci pensa un getto freddo e amaro. Torniamo alla vita così, presi a ceffoni da una doccia impietosa.

E poi è solo tensione. I vestiti preparati la sera prima, l’ultima cosa che non si trova, il mancato rispetto della tabella di marcia, la partenza leggermente in ritardo e la carica elettrostatica costante per tutta la durata del trasferimento verso l’aeroporto. E poi come sempre ci dimentichiamo di togliere la cintura prima di passare sotto al metal-detector. Una brioche e un cappuccino controvoglia, giusto per non rompere la routine della colazione. L’imbarco e l’attesa e quell’odore forte di kerosene subito prima del decollo.

Di nuovo stavolta ho solo il torcicollo.

 

Volando. Non è che abbia paura di volare. Ho paura di cadere. E non è che abbia paura di morire. Ho solo paura di essere lucida prima della fine e di rendermi conto che tutto sta finendo e che non c’è niente che possa fare per impedirlo. Ma tutto sommato devo dire che convivo benissimo con queste fobie. Forse, proprio perchè le ho accettate, non mi condizionano, né mi ostacolano. E’ una strana convivenza la nostra, basata più sulla comprensione che sui compromessi. Non è amore, non è sopportazione, non è scontro. E’ semplice tolleranza.

Guardo le nuvole dal finestrino, quella bianca distesa soffice e zuccherina. Stranamente non ho mai avuto la sensazione che possano trattenere il mio peso. Sì che con quell’aspetto accogliente in genere illudono chiunque: “buttati dai, immergiti in questa morbidezza, sprofonda nel cotone. Saremo l’atterraggio più delizioso della tua vita”. Io però non mi son mai fatta fregare. Le vedo così spumose e invitanti ma soprattutto le vedo inconsistenti. La mia sensazione è che se mi buttassi dall’alto le attraverserei senza rallentare nemmeno di un km la mia caduta. Non sono mai riuscita a percepirle in maniera diversa e un po’ devo ammettere mi dispiace.

Un’ora e mezza per arrivare a Parigi e dodici, per dio dodici, ignobili ore per atterrare a San Francisco. A causa del vulcano islandese dobbiamo prendere un giro largo per arrivare a destinazione. Fanculo anche i vulcani.

Di dormire manco a parlarne, inutile partire attrezzatissimi e preparatissimi. Ho il posto giusto, il giusto abbigliamento, ogni genere di accessorio utile al riposo ma tutto il resto non funziona. I sedili sono troppo stretti e sto così scomoda che ogni vertebra mi tira un calcio in culo al secondo. Passi il rumore tremendo ma costante dei motori. Ma le urla incessanti del neonato che si agita sul sedile davanti? E le risate del grassone seduto dietro? Ho un sonno infernale e non riesco nemmeno a cadere vittima del dormiveglia. Gli unici momenti di tregua da questo mattatoio me li prendo quando vado in bagno. In aereo si è costantemente a contatto con gli altri passeggeri. Respiriamo la loro aria, sfreghiamo i loro gomiti, spiamo i loro sbadigli e i bocconi di cibo che si lasciano cadere dalla bocca mentre mangiano. Perdiamo la nostra intimità E i bagni sono l’unico luogo in cui possiamo riacquistarla. Piccole oasi di pace e privacy in cui ci si può muovere in libertà ed essere gli unici spettatori di se stessi.

Atterriamo a S. Francisco alle 14.40, ora locale. Alla dogana mi rifilano una sfilza interminabile di domande, manco avessi una lunga barba e facessi Laden di cognome. Io che non parlo da ore e che ho sul groppone pesanti ore di veglia fatico non solo a capire ma soprattutto a rispondere. Così sembra mi senta a disagio e abbia qualcosa da nascondere. Pertanto le domande anziché diminuire aumentano e, quando ormai avverto l’imminente arrivo di un paio di poliziotti e di una lampada accecante puntata in faccia, ecco che improvvisamente il tipo dietro al bancone mi congeda e mi lascia andare. Libertà. Sono in America e sono una donna libera. Ci manca solo uno scenario mozzafiato sullo sfondo e un’inquadratura della mia persona dal basso, per farmi sembrare più alta.

Ad aspettarmi all’arrivals hall c’è Helen, la mia sorellina neozelandese, timida e sorridente come sempre. Mi pare siano trascorse settimane dall’ultima volta che ci siamo viste anziché anni. Le persone più care non cambiano mai, puoi trascorrere decenni senza vederle o sentirle ma appena le reincontri ritrovi immediatamente la stessa intimità e la stessa sintonia di un tempo.

Prendiamo un treno e poi un taxi per andare a casa, l’appartamento in cui Bronwin, la sorella di Helen, ci ospita. Mi guardo attorno, respiro quest’aria nuova e stimolante che mi manda in circolo sorsate di adrenalina. Nonostante il lungo viaggio e il fuso orario mi sento sveglia e reattiva ma non dura molto. Un tè caldo, una doccia, una cena al ristorante thai. Quando infine approdiamo in un pub per una birra di fine serata il mio cervello si butta in sciopero e i miei muscoli mollano la presa.

Non dormo da esattamente 46 ore.

Go to San Francisco!ultima modifica: 2010-05-09T04:42:00+02:00da betterbequiet
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