Organic and gay is better

 

Giorno dopo. Il jetlag mi congeda dal mondo dei sogni sempre troppo presto. Faccio del mio meglio per dargli filo da torcere ma non basta. Non bastano i ventimila caffè mattutini, non basta il mancato abuso di alcol e non basta nemmeno la volontà ferrea di non cedere al sonno troppo presto la sera. Il jetlag è una brutta bestia, a modo suo magica, perchè riesce a cementificarti i pensieri, a rendere pesantissimo anche il semplice pensare a quale delle due mani è la sinistra. Comporre delle frasi di senso compiuto in inglese poi, figuriamoci… Ci devo investire talmente tante forze che alla fine non solo mi sfinisco ma mi incazzo pure come una iena, perchè spesso i miei sforzi sbocciano in un completo fallimento. Pazienza, passerà, mi dico, e intanto me ne vado a spasso per San Francisco circondata da un’aureola di madonne svolazzanti…

Sabato mattina facciamo un salto giù al Farmer’s Market, una distesa di bancarelle più o meno bio e costantemente carine e sorridenti. Fragole rosse come invitanti sirene, richiamano a sé donne e uomini, pigri e iperattivi, senza far distinzioni. Cesti di vimini colmi di foglie verdi e clorofilla genuina, giovani piante promettenti che potrebbero far carriera in qualsiasi orto. Formaggi che belano e altri che muggiscono da quella bancarella che sembra una collina di campagna, custoditi da quell’uomo con le mani spesse e lo sguardo sereno di uno che sa. E poi limonate e succhi di frutta su cui galleggiano decine di grossi iceberg. Ogni sorsata è una dolce esperienza artica. Profumi di spezie vorticano tra i fumi di carne grigliata, oriente ed occidente danzano assieme al ritmo di una canzone messicana. Coreani, scozzesi, canadesi, californiani, vietnamiti, francesi e abruzzesi si muovono nel mercato senza seguire un senso preciso, attratti casualmente dai colori, dagli odori o da uno sguardo. Diversità e armonia, razze e culture e ideologie diverse accomunate dalla convinzione che anche negli Stati Uniti si possa essere sani e rispettosi dell’ambiente.

Le strade di questa città sono un paradiso anche per il senso d’orientamento più incapace. Ci si sposta su una sorta di graticolato romano, suddiviso in tanti quadratini precisi. Ogni strada parte dalla baia e risale le colline dritta e decisa mantenendo fino alla fine la propria identità. Non ci sono curve a San Francisco ma solo angoli di 90 gradi.

Il vento non concede mai tregua a questa città. Giorno e notte, col sole e mentre piove. Un vento che asciuga ma senza mai chiedere il permesso. Un vento che può far scorrere più velocemente ogni cosa ma che il più delle volte rallenta. Un vento che c’è e ci sarà, un vento che non accetta compromessi e di cui bisogna per forza farsene una ragione.

Il problema è che non so come spiegarlo al mio torcicollo.

Il giorno dopo ancora. Pensavo che la stanchezza massiccia con la quale mi sono infilata a letto mi avrebbe garantito un’altra notte di meritato riposo. Illusa. Tanta attività per tre misere ore di sonno. Mi alzo con i soliti dieci anni in più e con una fame grossa quanto un boeing 747. Una doccia e un te’ e una fetta di pane tostato per ingannare l’attesa di un succulento brunch a casa di amici. A casa di Liz arriviamo alle 10 e mezza ma grazie a dio, oltre al bel sorriso della padrona di casa, troviamo anche una tavola imbandita di squisiti carboidrati e massicce proteine. Vitamine e pure un contorno di grassi, per non farci mancare nulla. Vorrei buttarmi disordinatamente sul cibo ma l’estrema formalità di quest’abitazione non me lo permette. Un bel servizio di porcellana vintage, tovaglioli di lino, gentilezza estrema e precisione. Il fatto che tutto questo non rispecchi l’idea che mi ero fatta di un autentico brunch americano mi mette un po’ a disagio. La formalità mi spegne, la trovo così plastica. Penso sempre che il modo migliore per far sentire a proprio agio un ospite sia quello di non trattarlo da ospite ma semplicemente di condividere le proprie abitudini in maniera molto informale. In compenso il mio stomaco non bada molto all’etichetta. Se la gode beato familiarizzando con tutto ciò che gli capita a tiro e non fa che ringraziare cordialmente la tavola elegantemente imbandita.

Per riuscire a digerire il nutriente risveglio io ed Helen decidiamo di fare un giretto dalle parti della vivacissima Castro, il quartiere più gay di San Francisco e forse degli interi Stati Uniti. Bandiere arcobaleno, locali vivaci dalla destinazione d’uso non esattamente specificata. Stranezze, banalità, vestiti vistosi, jeans con semplici t-shirts, gente che ti sorride e altra che ti ignora. Leggera euforia ma anche routine e tranquillità. Va bene tutto a Castro, non vige una regola, ognuno usa il proprio buon senso e le proprie voglie. Basta il rispetto. Perchè a Castro se sei etero ti vien quasi voglia di essere gay, e se già lo sei, come me, allora di vien voglia di esserlo ancora di più. E tutta sta voglia nasce dall’aria di beata libertà che si respira e dal realizzare finalmente quanto miserabile posso sentirsi un  qualsiasi omosessuale in un’intollerante e bigotta cittadina italiana, per esempio. Ecco, quando finalmente approdi in questo posto la reazione è sempre la stessa per tutti: ahhhh, finalmente un po’ di pace.

San Francisco peccherà pure di un vento costante e maledetto ma può vantare un senso di uguaglianza da far invidia a qualsiasi altra non-ventosa città. Altro che pizza spaghetti e mandolino…

Organic and gay is betterultima modifica: 2010-05-10T20:37:00+02:00da betterbequiet
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